Qualche giorno fa mi è accaduto qualcosa di inconsueto: mentre ero dedito alla mia attività mattutina preferita, scorrazzare in scooter lungo il Grande Raccordo Anulare per raggiungere l’ufficio, di colpo il flusso ordinato e incessante dei miei pensieri subiva una repentina, quanto inattesa, deviazione. Questi pensieri, che all’inizio fluivano ordinati: i bambini da portare in palestra, le bollette da pagare, la preparazione della riunione mattutina con il gruppo di lavoro, a un tratto, senza alcun preavviso, deviavano, e pigliava corpo una nuova voce interiore che, formatasi spontaneamente, cominciava a vivere di vita propria.
Il pensiero “autonomo” mi portava a riflettere su alcune notizie balzate agli onori – o disonori – della cronaca nei mesi precedenti, e relativi all’annosa questione dell’uso improprio del termine “autistico”, che alcuni tendono ad utilizzare per offendere e insultare qualcuno. Nel caso particolare a tornarmi alla mente fu la questione di quel senatore che aveva apostrofato come “autistico” il presidente del consiglio.
Questo improvviso flusso di coscienza mi portava a riflettere se fosse giusto o meno offendersi quando qualcuno usa, in modo inopportuno, questo termine. E stranamente mi trovai propenso a considerare positivamente le ragioni di chi pensa che non ci sia nulla di cui offendersi. Dico stranamente poiché mai mi sognerei di mettere in dubbio la liceità di una certa forma di risentimento. Quella mattina però ad ancorarsi nel mio cervello fu la considerazione che forse il termine “autistico” , essendo un semplice aggettivo, come molti altri aggettivi si presta ad essere utilizzato in mille modi, ognuno con differente valore e significato.
In particolare mi fluiva in mente un esempio simmetrico: paragonavo la situazione a quella dei somari – quelli veri intendo – quando si vedono linguisticamente equiparati agli scolari svogliati, che non danno il massimo a scuola; più mi immergevo in questo pensiero e più la vocina interiore ripeteva come in un mantra:
“Perché ci offendiamo?”
“Perché non ci ridiamo su anche noi?”
Mentre mi arrovellavo con questi interrogativi improvvisamente, come in un flash, mi giunse chiara la risposta:
Noi ci offendiamo perché questo argomento tocca in un nervo scoperto, che è da anni esposto a vento, sole e intemperie; noi che viviamo tutto l’anno a stretto contatto con l’autismo – quello vero – non siamo alla ricerca di pietismo, né tantomeno richiediamo una forma di assistenzialismo fine a se stessa; noi genitori di figli con autismo pretendiamo giustizia ed eguaglianza, quella giustizia e quella eguaglianza che dovrebbe essere garantita da uno stato impegnato a far rispettare i diritti dei cittadini più deboli, uno stato che dia garanzie e che consenta alle famiglie di vivere al meglio una condizione di potenziale svantaggio. Solo questo è quello che noi cerchiamo: uno stato che sappia che i nostri figli esistono, che ne conosca le esigenze e le caratteristiche, che sia in grado di offrire gli strumenti utili alla loro piena integrazione sociale.
E che soprattutto sappia cosa sia in realtà l’autismo.
Era quindi tutto chiaro: ad essere offensiva in casi simili è la totale ignoranza della gente comune e di molti esponenti della classe politica, che non conoscono praticamente nulla delle vicende che coinvolgono le famiglie, e le persone, toccate dal problema dell’autismo.
Poi finalmente mi ridestai da questo flusso di pensieri autonomi, scoprendo di essere già giunto davanti all’ufficio. Incatenai come ogni mattina lo scooter e mi avviai verso una tranquilla giornata di lavoro.